Fin dall’antichità, la vite veniva propagata in maniera elementare e non necessitava di particolari trattamenti: potatura invernale e una buona concimazione erano più che sufficienti. A cambiare la situazione nell’Ottocento è l’arrivo di tre parassiti provenienti dal Nuovo Continente, nello specifico Oidio, Fillossera e Peronospora. La loro comparsa si attribuisce alla riduzione dei tempi di navigazione resa possibile dal battello a vapore, che favorì la sopravvivenza a bordo delle entità patogene che in America convivevano serenamente con la vite da migliaia di anni. La successiva importazione di uva americana Isabella e Fragola resistente alle malattie, atta a contrastare la nascente crisi viticola, non fece che peggiorare la situazione. Nel giro di 20 anni la superficie colpita dalla fillossera arrivò ad 1 milione di ettari, pari a un quarto della superficie viticola totale italiana: molti contadini abbandonarono la campagna per emigrare in città o continuare la professione viticola in America e Australia.Il problema della fillossera ha trovato poi una soluzione innestando le varietà di vite europea su portainnesto di vite americana, resistente alle forme radicicole della malattia. Nasce inoltre la cosiddetta “poltiglia bordolese”nell’ultimo ventennio dell’Ottocento e, negli anni successivi, i prodotti fitosanitari di sintesi chimica.
Una strada alternativa ed ecologica aperta agli inizi del Novecento è quella dei vitigni PIWI, detti anche super-bio, i quali nascono da complessi piani di incrocio interspecifici e intraspecifici atti ad ottenere un intrinseco carattere di resistenza della pianta alle principali crittogame. Si procede recidendo le antere (sacche contenenti i pollini maschili) della pianta madre, in fase di fioritura, e spennellando poi sulla parte femminile il polline della pianta scelta per l’incrocio; in questo modo si ottengono i frutti da cui si andranno a prelevare e piantare i semi del nuovo vitigno, che necessiterà di ulteriori 25-30 anni di test prima di poter essere distribuito ai viticoltori. In condizioni ottimali, con piovosità inferiori a 1000mm annui, questi vitigni resistenti non hanno bisogno di alcun trattamento; ad ogni modo l’uso di fitofarmaci è ridotto ad un massimo di tre trattamenti biologici con rame o zolfo. La qualità dei vini oggi ottenuti con questo programma è del tutto comparabile con le altre varietà europee, ma i benefici economici e ambientali sono impareggiabili. Permangono tuttavia difficoltà normative (la legislazione europea non consente l’impiego delle varietà resistenti nella produzione di vini a denominazione D.O. e molte regioni non hanno ancora autorizzato la loro coltivazione) e sfide di natura compositiva (i contenuti di antociani diglucosidici non compatibili con la normativa europea per la varietà a bacca rossa e per quelle bianche il controllo dell’acidità negli ambienti caldi centro-meridionali). Attualmente la coltivazione dei vitigni resistenti è idonea in Trentino Alto Adige, Lombardia,Friuli Venezia Giulia e Veneto, regioni nelle quali alcune varietà sono state iscritte nell’albo regionale.Fonte:Riccardo Camerin, “Vitigni resistenti/tolleranti – La rivoluzione vitivinicola”, tesi di laurea in Viticoltura ed Enologia presso Università degli Studi di Udine